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LIZZIE

  • Immagine del redattore: Paolo Di Menna
    Paolo Di Menna
  • 28 feb 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

Photo by Rok Zabukovec on Unsplash

La strada scorreva via buia e silenziosa. Spensi le luci per godermi al meglio il panorama illuminato dalla Luna. Conoscevo quelle strade come il palmo della mia mano e la dolce Nancy, la Chevy del '68 su cui viaggiavo, conosceva quelle vie polverose anche meglio di me. La notte era leggera, così come leggero era il profumo delle piantagioni di tabacco che saliva dai finestrini aperti.

In lontananza si iniziavano a scorgere le luci della città. Presi il pacchetto di sigarette dalla tasca della mia camicia e ne accesi una, inspirando profondamente lasciandomi inebriare i polmoni dal morbido fumo melenso. Alla radio suonavano le note di "Six pack of beer" di Hank William III. Ero in viaggio con i miei pensieri, mentre percorrevo quelle strade di periferia illuminate solo dalla fredda luce della Luna.

Brentwood era una piccola cittadina ai margini di Nashville, e Old Bull era un piccolo locale ai margini di Brentwood era lì che mi stavo dirigendo.

Parcheggiata l'auto nel piazzale antistante il locale, scesi accendendomi un'altra sigaretta e tirando fuori la custodia di pelle nera che conteneva la mia Gibson semi acustica.

Il locale, come al solito era avvolto da un denso strato di fumo, al bancone c'era il vecchio James che accoglieva sempre i clienti con il suo bel sorriso a quattro denti, una Bud fredda e un cicchetto di Jim Beam.

Lasciai scivolare lentamente la custodia tra le mie gambe mentre salivo sul logoro sgabello di legno. Tirai fuori dal pacchetto l'ultima sigaretta e l'accesi tracannando d'un fiato il Whisky assaporandone il retrogusto legnoso. Una volta posato il bicchiere vuoto sul bancone, subito James lo riempì evitandomi di chiederne un altro. Ormai il barista conosceva bene i suoi clienti abituali, ed io avevo lasciato su quel sudicio bancone tante, troppe parti della mia vita.

Prendendo la birra mi diressi verso il palco, Arth aveva già finito di montare la sua batteria ed aveva anche posizionato i due amplificatori Marshall ai lati del piedistallo di legno.

Gli chiesi com'era andata la giornata al lavoro e mi rispose con un laconico "Di merda", non era difficile credergli povero cristo, con un lavoro in una squallida fabbrica di lamiere, uno stipendio da fame ed una ex moglie affamata come una sanguisuga, le uniche gioie della vita di quel disgraziato erano sua figlia Becky e la musica.

Insieme a Corey, io e Arth formavamo i "Cashiers" un trio Blues/Country a cui piaceva suonare per passione e per guadagnare quei pochi spiccioli che ci garantivano di poterci sbronzare tutte le sere. Suonavamo brani che scrivevamo noi stessi, in cui mettevamo pezzi delle nostre vite disastrate.

Sostanzialmente la nostra musica piaceva alla gente, perché ognuno poteva trovare qualcosa in cui riconoscersi nelle nostre canzoni. I nostri sostenitori erano per lo più persone deluse dalla vita, che decidevano che era molto più facile annegare le loro frustrazioni in bicchieri di buon malto invecchiato in botti di quercia.

I clienti cominciarono ad arrivare alla spicciolata nel locale, le solite facce che ormai conoscevamo bene, di rado ci capitava di scorgere qualche nuovo spettatore tra il pubblico.

Corey ancora non si faceva vivo, quindi c'era tempo per un’altra birra prima del soundcheck. Molly l’altra barista me ne stappò una e porgendomela mi guardò con uno sguardo compassionevole, lo sguardo di chi conosce la tua storia e prova una grande pena nei tuoi confronti.

Con la bottiglia in mano andai verso il bagno e liberai la vescica. Corey nel frattempo era arrivato, lo vidi che stava togliendo dalla valigia il contrabbasso e si accingeva a collegarlo al mixer.

A sound-check completato ci scolammo quattro whisky doppi come da rituale e salimmo sul palco. Imbracciai la mia chitarra ed attaccai con l’intro, il pubblico tra il chiacchiericcio generale iniziò a voltarsi verso di noi, lo spettacolo poteva cominciare.

Durante il tempo che calcavamo il palcoscenico liberavamo le nostre menti e lasciavamo vagare i nostri corpi al ritmo della musica, più suonavamo e più sentivamo la vita ribollire nelle nostre vene, la gente gradiva il nostro spettacolo e ce lo dimostrava cantando e lasciandosi andare di tanto in tanto a qualche applauso timido.

La serata si fece calda, stavo dando la parte migliore di me, dimenandomi durante gli assoli, sudando schifosamente e sentendomi alla grande.

Ad un tratto la vidi, la tipa al bancone che stava chiacchierando con il tizio in sua compagnia e che nel frattempo mi guardava con uno sguardo languido. Continuai tra assoli e riff, gettando ogni tanto lo sguardo verso di lei la quale puntualmente mi sorrideva lanciandomi occhiate che lasciavano presagire molto di più. Aveva un culo che parlava e due tette rotonde e sode in cui avrei voluto affondare la lingua.

Suonavamo alla grande e di tanto in tanto qualcuno ci portava da bere, noi ringraziavamo e buttavamo giù in gola il dolce veleno.

Andammo avanti per due ore buone finché non annunciammo l'ultimo pezzo, una ballad intitolata "No country for women", la ragazza al bancone si avvicinò al palco iniziando a ballare da sola, una danza che carica di sensualità solitudine e dolore, tra i suoi capelli scompigliati che le ricadevano sul viso riuscivo a scorgere le lacrime che scivolavano sulle sue guance. Il ragazzo che era con lei la guardava da lontano tenendola d'occhio ed esaminandone i suoi movimenti.

Quando finimmo di suonare riponemmo gli strumenti nelle loro custodie e come sempre ci accingemmo a smontare l'attrezzatura.

Stavo finendo di riavvolgere il cavo dell'amplificatore, quando la tipa spuntò alle mie spalle con due birre, mi guardava negli occhi senza lasciare trasparire nessuna emozione. Afferrai la bottiglia e dopo averle fatte schioccare tra loro ci attaccammo al loro collo. Non ci dicemmo nemmeno una parola.

All'improvviso mi afferrò per la mano portandomi fuori dal locale, capii subito cosa voleva, non mi serviva chiedere, mi limitai ad afferrare la custodia con la chitarra e fare un cenno di saluto a Corey. Dopo essere montati nella mia macchina, partimmo verso il buio delle praterie.

La scorreva polverosa sotto gli pneumatici, eravamo nel bel mezzo del deserto, con i grilli che ci cantavano intorno e la luna che illuminava il paesaggio con la sua candida luce. Sdraiati sul cofano della macchina circondati dal nulla, ci abbandonammo ai nostri istinti ed alla passione irrefrenabile. I baci si accesero, le lingue si infiammarono, i nostri corpi bollenti e sudati si strofinarono in una danza esotica.

Scopammo selvaggiamente, facemmo l'amore, succhiammo le nostre anime, fu un vortice di sensazioni contrastanti, amore, passione, rabbia, solitudine, desiderio, paura, dolore, mentre la notte moriva attorno a noi.

Ancora stesi sul cofano rovente la ragazza accese due sigarette e me ne allungò una, fu solo allora che mi disse il suo nome, Christine. Non parlava molto, ed io la adoravo per questo.

Si fece accompagnare alla fermata dell'autobus, ma prima di andare via mi guardò intensamente negli occhi e con voce rotta dall'emozione confessò,

<<è la prima volta che faccio l'amore con un’altra donna>>. Me lo aspettavo, non ero affatto stupita, e le risposi che la vita era piena di prime volte.

Ci salutammo semplicemente guardandoci negli occhi.

Tornata nel mio monolocale, mi tolsi i vestiti, lasciando cadere il reggiseno a terra, mi sfilai le mutandine, mi lasciai cadere nuda sul letto mentre i primi raggi di sole si fecero strada attraverso le tende, caldi sulla mia pelle nuda.

Guardai la foto di mio padre che mi teneva in braccio da bambina che era appoggiata sul comodino.

Chiusi gli occhi.

Mentre una lacrima solcava il mio viso mi abbandonai ad un sonno senza sogni.

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